Nell’ultimo anno la pandemia ha fatto vivere le persone in standby, ha messo tutti nella condizione di attesa. L’attesa della fine delle restrizioni, l’attesa dei vaccini, l’attesa di una cura, l’attesa di ritornare a vivere liberamente. Una “sospensione” che in molti ha fatto sopraggiungere sensazioni di paura, in altri ancora di apatia. È quello che è successo ad alcune famiglie e ai loro bambini, dopo il lockdown, quando il Villaggio per Crescere di Torino ha ripreso la normale attività.
«Erano impaurite dal virus, non volevano entrare», racconta Giusi Bisignano, una delle educatrici. Ci è voluta tutta la bravura, la comprensione e l’accoglienza del personale del centro montessoriano per riconquistare la loro fiducia. «Quando c’è stata la nuova chiusura del 15 marzo avevamo paura di perdere le tante famiglie che piano piano avevano ripreso a frequentare il Villaggio. Allora, ci siamo chieste: cosa possiamo fare con le mamme nord africane visto che parlano solo arabo o che magari capiscono l’italiano ma non lo leggono, per le quali la frequenza online sarebbe stata difficoltosa?». La risposta è stata quasi naturale: con un corso di lingua italiana!
E il Villaggio per Crescere di Torino aveva già ha un asso nella manica: Nezha Ed Difdai.
Nezha
Nata in Marocco trentuno anni fa, Nezha ha studiato l’arabo classico sin dalle elementari, poi francese e italiano, all’Istituto Dante Alighieri di Casablanca. «Ho vinto il concorso e il visto studio per l’Italia» racconta. Nezha arriva nel Bel Paese nel 2010 e qui il suo percorso ha preso il volo, non senza tanti sacrifici. Concorso al Miur per Scienze dell’Architettura al Politecnico di Torino nel 2016 e la collaborazione con l’Indro. «Per me è stato impegnativo studiare in italiano ma mi sono impegnata e ce l’ho fatta».
Poi inizia il suo percorso di mediatrice culturale con il Villaggio per Crescere di Torino e collabora alla formazione delle baby sitter nordafricane che curano i bambini delle mamme che frequentano i corsi di italiano L2 nelle biblioteche pubbliche di Torino con un progetto della onlus Mondi in città. Durante il primo lockdown ha tradotto i post e le chat del Villaggio. Questa collaborazione è poi proseguita con il censimento delle famiglie, da novembre 2020 allo scorso febbraio. «Ho iniziato a collaborare da esterna come mediatrice culturale e ritengo che il mio ruolo sia stato fondamentale — spiega — perché consiste nello sciogliere le barriere linguistico-culturali. Da marzo sto lavorando come dipendente e sono molto contenta».
È anche grazie a lei che si è potuto organizzare il corso italiano per le mamme di origine araba. «Lei, ha provato in prima persona le difficoltà che si possono vivere in un paese straniero, ed è riuscita a trasmettere l’energia e la costanza alle mamme, per seguire il corso. Nezha è molto brava in questo. Lei segue individualmente queste donne. Alcune hanno una scolarizzazione nei paesi di origine, altre no», sottolinea Giusi.
Il corso di italiano
Attualmente le donne che partecipano al progetto sono sei. In origine erano quattro, «ma non escludo che ne arrivino altre», spiega. Alcune hanno frequentato il Villaggio prima della pandemia, altre sono arrivate dopo. «Qui a Torino il passaparola è molto efficace. Non utilizziamo i canali digitali ma le persone vengono comunque raggiunte, come si faceva un tempo. Infatti recentemente sono arrivate tante mamme nuove con i loro bambini, quindi funziona», spiega Giusi.
Quattro tunisine, una marocchina e una egiziana. Sei donne, tre varianti di arabo diverse. Se nella percezione comune la lingua araba è una, in realtà esistono differenze notevoli da regione a regione e non sempre, ad esempio, un marocchino capisce l’arabo di un egiziano o di un libanese. «Per fortuna io parlo l’arabo classico, che è quello utilizzato nei telegiornali e capito più o meno da tutti», sottolinea Nezha. E attraverso l’arabo classico insegna l’italiano, utilizzando dei parallelismi. «Ad esempio, quando parlo dell’articolo determinativo, faccio riferimento alla funzione dell’articolo nell’arabo classico e capiscono che hanno la stessa funzione».
I corsi sono due, uno per principianti, con lezioni individuali, a cui partecipano due mamme, e uno collettivo, più avanzato, di perfezionamento, a cui partecipano le altre: entrambi online, a causa delle restrizioni. «Iniziamo chiacchierando, con una risata, per distendere il clima». Poi la lezione vera e propria. «Quando spiego ci sono sempre i bambini accanto alle mamme e quando le correggo loro sono in ascolto. Noto che i bambini desiderano partecipare ma noi siamo molto prudenti nel fare utilizzare i device elettronici. Se fossimo in presenza, sarebbe diverso». Nezha utilizza la metodologia e il programma che ha acquisito all’istituto Dante Alighieri.
Le testimonianze
Sono proprio le donne che partecipano ai corsi a raccontarlo e a raccontarsi. Yosra ha trentatré anni, è tunisina e mamma di un bambino di sette mesi e dice che tutti i suoi sogni «dipendono dall’apprendimento della lingua italiana. Inizieranno a prendere forma quando parlerò l’italiano». Suo marito lavora in italia da 15 anni e lei è arrivata a Torino con un visto per ricongiungimento familiare. «All’inizio mi sembrava difficile. Stavo a casa fino a sera ad aspettare mio marito dal lavoro, perché non sapevo parlare l’italiano. Dopo qualche lezione ho iniziato a fare le commissioni da sola, senza essere più accompagnata».
Ha conosciuto il Villaggio grazie a un’amica. «Per me è stato uno sfogo — racconta — l’apprendimento dell’italiano è il primo passo nell’ambientazione della società. Uno straniero vuole imparare la lingua del posto per crearsi nuove amicizie, così non si sentirà straniero al 100%».
Fatima è una casalinga marocchina di 28 anni e ha un sogno: «tornare nella mia patria per passare la vecchiaia, magari con i miei genitori». Prima però ne vuole realizzare un altro, non per sé ma per i propri figli, che oggi hanno tre e sei anni. «Li vorrei vedere crescere, studiare e magari con un bel lavoro. Vorrei che si realizzassero». E per la loro educazione, ora che sono piccoli, ha scelto il Villaggio. «Nezha mi ha proposto il progetto e mi è piaciuto subito. I miei bambini lì sono liberi, fanno quello che vogliono. Li porto con piacere, si divertono e poi sento che hanno “il Marocco nelle mani”, perché giocano con la sabbia».
Suo marito è arrivato in Italia nel 1999, a dieci anni, con i suoi genitori. Fatima lo ha conosciuto in Marocco. Poi è arrivata anche lei in Italia. «C’è l’idea che tutto sia facile, invece ho trovato degli ostacoli, prima di tutto la lingua. Sono arrivata a vent’anni e avevo bisogno sempre di qualcuno anche per pagare una semplice bolletta. Arrivi e sei sola e dipendente dagli altri». Fatima si è impegnata e nel 2019 ha preso la licenza media in italiano. «Vado al Villaggio dal 2018, due o tre volte alla settimana. Mio figlio è cambiato, ora apprende e si diverte e ha imparato il valore della pazienza, sa aspettare e fare la fila prima di usare un gioco. È il rispetto verso il prossimo».
Il più grande traguardo di Esraa è stato portare sua figlia dal medico, da sola. «All’inizio non sapevo come fare. Non riuscivo a fare le commissioni, anche quelle semplici, avevo sempre bisogno di mio marito». Ha iniziato a frequentare il corso del Villaggio, oltre che per imparare l’italiano anche per fare amicizia. «Il più grande ostacolo nel rapportarmi con le famiglie è la lingua». Anche lei è arrivata con un visto di ricongiungimento familiare e con l’intenzione di «avere una vita migliore rispetto a quella che vivevo in Egitto». Vent’anni, due figlie, di due anni l’una, e quattro mesi l’altra, il suo desiderio è «poter conseguire presto il corso di italiano».
Villaggio e inclusività
Allacciare e mantenere un rapporto constante di frequenza e fiducia con famiglie di tante nazionalità diverse (italiana, romena, marocchina, nigeriana, tunisina, peruviana, brasiliana, mailana, ghabonese, albanese, senegalese, sudanese ecc.) è un traguardo per il Villaggio, perché l’interculturalità è un valore che va difeso e curato. «Tutte le famiglie con i loro bambini sono una ricchezza importante perché portano con sé un bagaglio culturale enorme e danno la possibilità di provare cosa significa vivere a cavallo di due o più culture», racconta la responsabile Rossella Trombacco.
«Spesso mi sento minoranza — sorride, Giusi — perché partecipano mamme provenienti da tante realtà diverse. Sembra di viaggiare». Un viaggio in un Villaggio dove nessuno è diverso, dove nessuno è straniero e dove non esistono minoranze ma soltanto un’unione, una fratellanza, in nome dell’educazione e dell’infanzia.
Mario Gottardi