«I bambini non notano il colore delle pelle o le differenze di culture. Per loro un altro bambino è solo un altro bambino. Non un nero, un rosso o un giallo. Semplicemente un altro bambino. Mentre nel mio quartiere le signore vanno in giro impellicciate con il cagnolino e ti guardano dalla testa ai piedi, senza mai salutare. A Barriera, invece, trovi ragazzi che appena ti vedono ti dicono “ciao!”»
Serena è figlia della crisi. Poco più di quartant’anni, cinque anni fa si è trovata «a piedi e mi sono “inventata” un altro lavoro: faccio la tata. «Mi prendo carico dei bambini quando hanno pochi mesi e li tiro su fino ai tre anni». È così che ha trasformato una disgrazia – la perdita improvvisa del lavoro nell’azienda dove ha lavorato per dieci anni di fila – con un’opportunità. Ed è grazie a questo lavoro che ha conosciuto Guglielmo, un bambino di di due anni che frequenta il Villaggio perCrescere di Torino da una settimana dopo l’apertura, il 9 ottobre, nel quartiere Barriera di Milano, in via Brandizzo 38.
Figlio di una coppia che risiedeva nel suo quartiere, Guglielmo si è trasferito da qualche tempo proprio in Barriera. «Guglielmo è nato nel quartiere dove vivo io, dove vivono ancora i residenti storici di Torino. Un posto dove i negozi ci sono e funzionano, hanno mercato. Non come quelli di tanti altri quartieri, che hanno le serrande abbassate. Mantre ora con la sua famiglia si è trasferito nel quartiere Barriera, dove si incontrano etnie di tutti i tipi». Ed è qui che tutti i giorni Serena viene a prendere Guglielmo per portarlo al Villaggio.
«Abbiamo vissuto il Villaggio dopo una settimana dalla sua apertura. Siamo entrati in questo ambiente non sapendo cosa ci saremmo trovati di fronte. Qui si trovano persone di tutti i tipi. Abbiamo una mamma con due bambini, uno più grande e uno più piccolo, e ti confronti su lei su tanti aspetti, o una donna nera, una nonna, che segue tuo nipote ma dà uno sguardo anche al tuo. Perché si è tutti una grande famiglia».
Il quartiere del Villaggio
Barriera di Milano si chiama così perché nel periodo preunitario era una zona doganale, una barriera appunto, per i prodotti che provenivano da Milano. È sempre stato un quartiere di immigrazione. Qui si insediavano le persone che arrivavano a Torino per cercare un lavoro. Prima i cuneesi, poi, dopo il secondo dopoguerra, pugliesi, calabresi e siciliani. È stato connotato anche per le tensioni che si crearono tra italiani del nord e italiani del sud. All’immigrazione interna oggi è succeduta quella estera: africani di varie nazionalità, cinesi, indiani, pachistani.
«C’è una grande allegria nelle strade. C’è un mercato molto grande, di piazza Foroni, dove ci sono banchi di verdura con prodotti locali ed esteri. È un quartiere multicolore», racconta Rossella Trombacco, educatrice e responsabile del Villaggio (ndr. Al Villaggio lavoro come dipendente di Orsa s.c.s., per la quale sono appunto una coordinatrice. Lavoro anche per Fondazione Montessori Italia, per la quale sono Responsabile dell’area 0-6 anni e formatrice, ma questo non ha una connessione diretta col Villaggio).
Rossella è anche una mamma di un bambino: «Mio figlio è l’unico italiano della classe e le altre quattro prime classinon sono con alunni di origine italiana e questo nonostante l’ottima fama della scuola Gabelli edelle sue maestre».
I bambini di origine straniera talvolta arrivano a scuola con problemi linguistici. Ed è questo uno dei problemi principali che riguarda l’infanzia fascia 0-6 e con il Villaggio si vuole superare. Sono molti i bambini che per scelta della famiglia e per difficoltà economiche non frequentano i Nidi, e alcuni, in particolare coloro che arrivano in Italia durante l’anno scolastico, non riescono a frequentare neanche la Scuola dell’Infanzia: rimangono in famiglia a volte fino alla prima elementare e quindi si viene subito a creare un gap tra loro e i bambini che provengono dagli istituti per l’infanzia.
«Il nostro intento è lavorare accuratamente con i bambini provenienti da famiglie straniere sull’italiano come seconda lingua, valorizzando l’importanza della loro lingua madre, poiché non solo il bilinguismo è una ricchezza, ma parlare la lingua dei propri antenati contribuisce a mantenere e a vivere il legame con le proprie radici storiche e famigliari: per questo consigliamo ai genitori di parlare, leggere, raccontare ai loro figli nella loro lingua, affidando la trasmissione della lingua italiana alle tante agenzie educative del territorio (noi, la Scuola, i circoli sportivi, la parrocchia, le Associazioni ecc.)», sottolinea Rossella.
Un Villaggio col metodo Montessori
Per perseguire questo obiettivo Rossella assieme alle altre educatrici e volontarie del Villaggio hanno approntato un percorso centrato sul linguaggio, attraverso attività linguistiche ispirate al Metodo Montessori. «Nominare le cose, dare loro un nome, è una vera e propria cerimonia d’investitura dove la madre, che crede profondamente che i vocalizzi del suo piccolo abbiano un senso, comincia sistematicamente a correggerne i suoni verso una maggiore chiarezza fonetica e semantica, ovvero di significato. Spontaneamente, in questo contesto affettivo, si avvia uno dei processi basilari per l’acquisizione del linguaggio e per lo sviluppo dell’area linguistica: l’assorbimento di una grande quantità di nomi e il loro abbinamento agli oggetti corrispondenti. Attraverso un materiale speciale, le “Nomenclature”, la maestra e i bambini associano ad immagini molto belle piccoli oggetti che riproducono oggetti reali: animali, mobili, strumenti e attrezzi e così via, nominando di volta in volta l’oggetto riprodotto. È interessante sottolineare come nell’attività delle nomenclature il bambino riviva con la maestra quella particolare esperienza primaria che ha vissuto con la sua mamma: ci sono il nome, l’associazione all’immagine e all’oggetto, e il contesto affettivo che si crea mentre si lavora: infatti, la maestra si dedica ad un solo bambino alla volta, o al massimo ad un piccolissimo gruppo di tre o quattro bambini, stabilendo con loro una sintonia molto intensa».
Attraverso le suggestioni educative lasciateci dalle sorelle Rosa e Giuseppina Agazzi possiamo ampliare ulteriormente il vocabolario dei bambini: «Si va a lavorare sulle proprietà dei vari oggetti, ad esempio la dimensione. Poniamo il caso che trovo due bamboline, una grande e una è piccola. Il bambino conosce già la bambola ma può apprezzare le differenze tra quella grande e quella piccola. Cinque palline, ma di colore diverso e di dimensione. Apprende il concetto del colore, possedendo già quello di palla». Questi lavori vengono svolti con i genitori. Per cui, se si tratta di persone che non conoscono bene la lingua italiana, si rivelano utili anche a loro. Un percorso virtuoso che coinvolge genitori e figli con benefici reciproci. Queste non sono le uniche attività a sfondo montessoriano del Villaggio di Torino. È proprio tutto il Villaggio che è impostato secondo la metodologia della grande educatrice di Chiaravalle. «Una parte è dedicata ai bambini piccoli, da 0 a 1 anno, dove i più piccoli possono trovare il “Cestino dei tesori”, un meraviglioso “Gioco” creato dalla grande maestra e pedagogista Elinor Goldschmiedt, in cui i bimbi possono trovare una vasta collezione di oggetti della quotidianità che loro possono prendere, esplorare, toccandoli, scuotendoli, sbattendoli, ma anche mettendoli in bocca. Oggetti che interessano profondamente il bambino, stimolando la sua attenzione, poichè appartengono alla nostra “cultura materiale”, sono presenti nelle case e usati dagli adulti.
Nella zona dedicata al lattante sono presenti anche diversi oggetti dedicati alla motricità delle manine, dove si possono infilare palline o altri oggetti», spiega Irene Restuccia, una delle educatrici, che illustra il Villaggio di Torino.
«Le stanze che danno sulla strada le abbiamo divise per angoli: c’è un angolo molto grande che abbiamo dedicato al linguaggio, visto che è uno dei problemi principali di questo quartiere. C’è l’angolo del Gioco Euristico, altro bellissimo materiale creato da Elinor Golschmiedt, dove i bambini trovano una decina di sacche con tanto materiale semplice, anche di recupero o di tutti i giorni,come tappi di sughero, catenelle, elementi naturali come pigne. Ci sono dei cestini dove i bambini possono provare a infilarli o fare delle prime costruzioni.
E proprio a questa pratica è dedicato un altro angolo, quello della costruttività, con delle costruzioni in legno. Poi c’è la stanza dedicata alla “vita Pratica”, al “Materiale Sensoriale di Sviluppo” e alle attività grafico-pittoriche: qui i bambini possono prendere i “vassoi di vita pratica” e portarli ai tavoli. «Abbiamo fatto attività semplici, una brocca con cui fanno il travaso di castagne, di nocciole, di semi di zucca», continua Irene. «Ci sono anche i tavoli dedicati ai grandi travasi. Dentro c’è un vano con del materiale naturale con cui lavorare: riso, sabbia, conchiglie.
C’è infine la stanza della paglia, ispirata al lavoro della fisioterapista berlinese Ute Strubb, con dei covoni e della paglia sparsa, di modo che i bambini si possano muovere liberamente e senza pericoli, ammucchiando la paglia, pulendo, riempiendo e svuotando sacchi, cesti, cassette: lo scopo è di dare al corpo nella sua interezza la libertà di muoversi, sviluppando e raffinando tante sequenze motorie che il bambino piccolo crea proprio a partire dalle esperienze che può fare nell’ambiente».
Il Villaggio, un “mondo a parte”
Ed è quello che fa Guglielmo assieme a Serena e agli altri bambini e i loro genitori che frequentano il Villaggio di Torino. «Pensavo di trovare uno spazio gioco e invece mi trovo in un luogo diverso, dove giochi veri e propri non ce ne sono», racconta la tata ricordando il primo giorno in cui è entrata nel Villaggio. «Ci sono “non giochi” tradizionali con cui però i bimbi giocano. E poi c’è una parte dove imparano i nomi delle verdure, un’altra dove possono dipingere. Hanno uno spazio relativamente piccino ma è un mondo a parte, è diverso», racconta Serena.
E la diversità probabilmente sta proprio nel fatto che qui nei Villaggi ci sono i bambini e le relazioni tra di loro e soprattutto con i genitori. Ma il Villaggio di Barriera, come ogni villaggio, ha la sua peculiarità, che è data dal quartiere e dal tessuto sociale dove si è inserito. «In questa zona -spiega la tata – vivono un sacco di persone diverse, con colori della pelle diversi. Però i bambini non notano di che colore ha la pelle un altro bambino o le differenze culturali dei genitori. Per loro un bambino è solo un altro essere simile a loro».
Il tessuto sociale di Barriera
Se i bambini si integrano in modo naturale, i genitori di Barriera hanno qualche difficoltà in più. Gli immigrati sono riservati. Non tendono a parlare del loro privato. «Capisci qualcosa mettendo assieme pezzi di discorsi», rivela la tata.
E così può succedere di scoprire che un bimbo vive con la nonna perché la mamma vive in un altro paese.
La ritrosia a parlare di sé l’ha rilevata anche una volontaria del Villaggio, Carlotta. «Attualmente non abbiamo famiglie che ci hanno raccontato nel dettaglio i propri problemi. Ci siamo comunque accorte che molti immigrati hanno difficoltà economiche. E per loro avere un punto di riferimento nel territorio, gratuito, è fondamentale».
Carlotta è nata e cresciuta a Palermo ed è arrivata a Torino col suo bagaglio di amore per i bambini e per il suo lavoro. «Quello che mi ha colpito di più è lo stupore delle famiglie nel vedere un centro gratuito, vedere le mamme che interagiscono con i bambini. Vedere la voglia di integrarsi nel territorio. Poi anche le diversità di cultura, di approccio e di cura. Ad esempio, le mamme sono molto giovani, hanno tanti bambini da accudire, sono molto amorevoli. Però è difficile per loro approcciarsi ad un ambiente fatto in questo modo. Con spazi ben definiti, con regole da rispettare.
Secondo me non sono abituate ad avere spazi dedicati esclusivamente ai bambini, sono famiglie numerose e i bambini non hanno spazi. Vedo mamme che giocano con i loro bambini. Ci sono mamme che stanno lì con i loro bambini mentre altre che lasciano i bambini da soli a giocare con noi o con altri bambini».
Ma a Barriera non ci sono solo immigrati. E non solo perché lo frequenta Guglielmo con Serena, la sua tata. Ci sono anche altri bambini che vengono con il nonno o con la nonna, mamme e papà italiani che vengono con i loro bimbi.
Anche con loro Carlotta, Irene e Rossella hanno fatto come con tutti. Li hanno accompagnati negli spazi, hanno presentato i vari angoli e li hanno guidati nella scoperta dei materiali e delle tante attività, delle proposte dedicate al linguaggio e del metodo Montessori in genere.
«Mi ha sempre entusiasmato. Un metodo con radici antiche ma molto attuale», racconta Carlotta, che poi conclude: «È un metodo per l’amore e la libertà che lascia il bambino crescere in uno spazio creato su misura per lui ma che gli dà la libertà di muoversi, di scegliere».
Mario Gottardi