Cura. Questa parola oggi non la scegliamo a caso ma lo facciamo proprio in questo 8 marzo, giornata in cui ogni anno si celebrano i diritti delle donne.
La cura occupa gran parte della nostra vita, di donne e di uomini, è “qualcosa” che agiamo e che riceviamo, è qualcosa di cui abbiamo bisogno, un po’ perché non nasciamo autosufficienti e un po’ perché non viviamo per considerarci solitudini che si bastano in tutto e per tutto.
Se l’aver cura fosse dunque la preoccupazione primaria di tutti e tutte noi e divenisse il tema attorno a cui far ruotare molte delle decisioni che vengono prese in ambito politico, sociale e educativo, verrebbero mossi quotidianamente dei passi affinché le condizioni di molte persone, e in particolare le più piccole del mondo, possano giovare di un miglioramento sostanziale.
Oggi invece lo spazio della cura è quasi banalizzato, schiacciato al confronto del tempo retribuito, come se non avesse valore. È uno spazio spesso abitato da, e associato a, figure femminili, che si realizza in attività fondamentali per la creazione delle condizioni future delle persone, ma che non ricevono il giusto riconoscimento, anche e soprattutto dal punto di vista economico. Attività a lungo in carico esclusivamente alle donne, perché considerate naturalmente dotate della predisposizione “d’animo e de core” per svolgerle, con il risultato che non si valorizza abbastanza il portato culturale che qualsiasi azione di cura è in grado di esprimere e altrettanto poco valore ricevono le figure altre che la esercitano, a partire da quelle maschili.
Eppure, la sensazione oggi è che qualcosa si muova, consapevolezze diverse crescono, si muovono, prendono nuove strade e le abbiamo spesso sotto gli occhi ai nostri Villaggi.
Dove ci porteranno è ancora da vedere.